19 resultados para Recidiva

em AMS Tesi di Dottorato - Alm@DL - Università di Bologna


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PREMESSA: La progressione della recidiva d’epatite C è accelerata nei pazienti sottoposti a trapianto di fegato e ciò ha portato alla necessità di sviluppare nuove e validate metodiche non invasive per la quantificazione e la misura della fibrosi epatica. SCOPI: Stabilire l’efficacia dell’elastometria epatica (Fibroscan®) e dei parametri sierici di fibrosi, attualmente disponibili nella pratica clinica, per predire il grado di fibrosi nei pazienti sottoposti a trapianto epatico. METODI: La correlazione fra fibrosi epatica, determinata mediante biopsia epatica ed esame istologico, e Fibroscan® o indici clinico-sierologici di fibrosi (Benlloch, Apri, Forns, Fibrotest and Doppler resistance index), è stata studiata in pazienti che avevano ricevuto un trapianto ortotopico di fegato con evidenza di recidiva d’epatite da HCV. Un totale di 36 pazienti, con la seguente classificazione istologica: fibrosi secondom METAVIR F1=24, F2=8, F3=3, F4=1, sono stati arruolati nella popolazione oggetto di studio. Un totale di 29 individui volontari sani sono serviti come controllo. Le differenze fra gli stadi di fibrosi sono state calcolate mediante analisi statistica non parametrica. Il miglior cut-off per la differenziazione di fibrosi significativa (F2-F4) è stato identificato mediante l’analisi delle curve ROC. RISULTATI: La rigidità epatica ha presentato valori di 4.4 KPa (2.7-6.9) nei controlli (mediane e ranges), con valori in tutti i soggeti <7.0 KPa; 7.75 KPa (4.2-28.0) negli F1; 16.95 KPa (10.2-31.6) negli F2; 21.10 KPa nell’unico paziente F4 cirrotico. Le differenze sono state statisticamente significative per i soggetti controllo versus F1 e F2 (p<0.0001) e per F1 versus F2 (p<0.0001). Un cut-off elastografico di 11.2 KPagarantisce 88% di Sensibilità, 90% di Specificità, 79% di PPV e 95% di NPV nel differenziare i soggetti F1 dagli F2-F4. Le AUROC, relativamente alla capacità di discriminare fra i differenti gradi di fibrosi, evidenziavano un netto vantaggio per il Fibroscan® rispetto ad ognuno degli indici non invasivi di fibrosi. CONCLUSIONI: L’elastometria epatica presenta una buona accuratezza diagnostica nell’identificare pazienti con fibrosi epatica di grado significativo, superiore a quella di tutti gli altri test non invasivi al momento disponibili nella clinica, nei pazienti portatori di trapianto epatico ortotopico da cadavere con recidiva di HCV.

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L’argomento della presente tesi di dottorato riguarda lo studio clinico del trapianto di cellule staminali emopoietiche aploidentiche nelle patologie oncoematologiche. Nel periodo di tempo compreso tra 1/12/2005 ed il 30/10/2007 sono stati arruolati 10 pazienti (6 LAM, 3 LAL, 1 LMC in crisi blastica mieloide) nell’ambito di uno studio clinico che prevedeva il trapianto di midollo osseo aploidentico per pazienti affetti da patologia oncoematologica in prima o successiva recidiva, per i quali non fosse disponibile un donatore di midollo osseo consanguineo o da banca. Lo schema di condizionamento al trapianto di midollo osseo utilizzato era il seguente: Fludarabina 150/m2, Busulfano orale 14mg/kg, Tiothepa 10mg/kg e Ciclofosfamide 160mg/kg. Per la profilassi della malattia da trapianto contro l’ospite è stata somministrata timoglobulina antilinfocitaria (ATG) al dosaggio complessivo di 12.5 mg/kg, short course metotrexate (+1, +3 e +11), cortisone e ciclosporina con tapering precoce al + 60. I pazienti hanno reinfuso una megadose di cellule CD34+ mediana pari a 12.8x106/kg. Tre pazienti non sono valutabili per l’attecchimento a causa di rigetto (1/3) o morte precoce (2/3). Sette pazienti sono valutabili per l’attecchimento; per questi pazienti il tempo mediano a 500 PMN/mmc e a 20 x 109/l piastrine è stato rispettivamente di 17 e 20 giorni. Quattro pazienti su 7 hanno svillupato una Graft versus Host Disease (GVHD) acuta di grado II-IV, mentre soltanto 1/7 ha sviluppato una GVHD cronica. Sette pazienti su 10 trapiantati hanno ottenuto una remissione completa successivamente al trapianto. Di questi, attualmente 2 pazienti sono vivi in remissione completa, mentre gli altri 5 sono ricaduti e successivamente deceduti. In conclusione, il trapianto aploidentico è una procedura fattibile ed efficace. Tale procedura è in grado di garantire un 20% di lungo sopravviventi in un setting di pazienti a prognosi estremamente infausta.

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Introduzione: Il cervico-carcinoma è la seconda neoplasia maligna per incidenza e mortalità nelle donne in tutto il mondo dopo il cancro al seno. L’infezione persistente da Papillomavirus Umani (HPV) è causa necessaria dell’insorgenza del cervico-carcinoma e delle sue lesioni pre-cancerose. L’infezione da HPV si associa anche ad altri carcinomi del distretto ano-genitale (a livello anale, vulvare, vaginale e del pene) e a circa il 25% dei carcinomi squamosi dell’orofaringe. I circa 40 genotipi di HPV che infettano la mucosa genitale vengono suddivisi in alto rischio (HR-HPV) e basso rischio (LR-HPV) oncogeno a seconda della alta e bassa associazione con la neoplasia cervicale. I 13 genotipi a più alto rischio oncogeno sono 16, 18, 31, 33, 35, 39, 45, 51, 52, 56, 58, 59 e 68. Di questi, otto (16, 18, 31, 33, 35, 45, 52 e 58) sono associati alla maggior parte dei carcinomi cervicali (circa 89%) e i genotipi 16 e 18 da soli sono riscontrati nel 70% circa delle neoplasie. L’insorgenza e progressione delle lesioni preneoplastiche cervicali è, però, associata non solo alla presenza di HPV ad alto rischio, ma, soprattutto, alla persistenza virale (> 18 mesi), alla capacità di integrazione degli HPV ad alto rischio e alla conseguente sovraespressione delle oncoproteine E6/E7. Inoltre, l’integrazione è spesso favorita da un’alta carica virale soprattutto per quanto riguarda alcuni genotipi (HPV16 e 18). L’infezione da HPV non interessa solo la cervice uterina ma tutto il distretto ano-genitale e quello testa-collo. L’HPV, in particolare il genotipo 16, è implicato, infatti, nell’insorgenza delle lesioni preneoplastiche della vulva (VIN) classificate come VIN classiche e nei carcinomi ad esse associati. L’incidenza del carcinoma vulvare in Europa è di 1.5/100.000 di cui circa il 45% è dovuto a HR-HPV (80% ad HPV16). Nonostante l’associazione tra HPV16 e carcinoma vulvare sia alta, ancora poco si conosce sul ruolo della carica virale e dell’integrazione in tali lesioni. Le lesioni che possono presentarsi nella regione testa-collo possono essere sia di natura benigna che maligna. I genotipi più frequentemente riscontrati in associazione a lesioni benigne (papillomi) sono HPV 6 e 11, quelli associati a forme tumorali (HNSCC) sono il genotipo 18 ma soprattutto il 16. Molti aspetti del coinvolgimento di HPV in queste patologie non sono ancora perfettamente conosciuti e spesso studi su tale argomento hanno mostrato risultati contraddittori, soprattutto perché vengono utilizzate metodiche con gradi diversi di sensibilità e specificità. Recenti dati di letteratura hanno tuttavia messo in evidenza che i pazienti affetti da HNSCC positivi ad HPV hanno una elevata risposta al trattamento chemioradioterapico rispetto ai pazienti HPV-negativi con un notevole impatto sul controllo locale e sulla sopravvivenza ma soprattutto sulla qualità di vita di tali pazienti, evitando di sottoporli a chirurgia sicuramente demolitiva. Scopo del lavoro: Sulla base di queste premesse, scopo di questo lavoro è stato quello di valutare l’importanza di marker quali la presenza/persistenza di HPV, la carica virale, la valutazione dello stato fisico del genoma virale e l’espressione degli mRNA oncogeni nella gestione di pazienti con lesioni preneoplastiche e neoplastiche di diverso grado, associate a papillomavirus mucosi. Per la valutazione dei markers virologici di progressione neoplastica abbiamo sviluppato dei saggi di real time PCR qualitativi e quantitativi studiati in modo da poter fornire, contemporaneamente e a seconda delle esigenze, risposte specifiche non solo sulla presenza e persistenza dei diversi genotipi di HPV, ma anche sul rischio di insorgenza, progressione e recidiva delle lesioni mediante lo studio di markers virologici quali carica virale, integrazione ed espressione degli mRNA. Abbiamo pertanto indirizzato la nostra attenzione verso tre popolazioni specifiche di pazienti: - donne con lesioni vulvari preneoplastiche (VIN) e neoplastiche, allo scopo di comprendere i complessi meccanismi patogenetici di tali patologie non sempre associate ad infezione da HPV; - pazienti con lesioni maligne a livello della regione testa-collo allo scopo di fornire informazioni utili all’elaborazione di un percorso terapeutico mirato (radiochemioterapico o chirurgico) a seconda o meno della presenza di infezione virale; - donne con lesioni cervicali di alto grado, trattate chirurgicamente per la rimozione delle lesioni e seguite nel follow-up, per stabilire l’importanza di tali marker nella valutazione della persistenza virale al fine di prevenire recidive di malattia.

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PRESUPPOSTI: Le tachicardie atriali sono comuni nei GUCH sia dopo intervento correttivo o palliativo che in storia naturale, ma l’incidenza è significativamente più elevata nei pazienti sottoposti ad interventi che prevedono un’estesa manipolazione atriale (Mustard, Senning, Fontan). Il meccanismo più frequente delle tachicardie atriali nel paziente congenito adulto è il macrorientro atriale destro. L’ECG è poco utile nella previsione della localizzazione del circuito di rientro. Nei pazienti con cardiopatia congenita sottoposta a correzione biventricolare o in storia naturale il rientro peritricuspidale costituisce il circuito più frequente, invece nei pazienti con esiti di intervento di Fontan la sede più comune di macrorientro è la parete laterale dell’atrio destro. I farmaci antiaritmici sono poco efficaci nel trattamento di tali aritmie e comportano un’elevata incidenza di effetti avversi, soprattutto l’aggravamento della disfunzione sinusale preesistente ed il peggioramento della disfunzione ventricolare, e di effetti proaritmici. Vari studi hanno dimostrato la possibilità di trattare efficacemente le IART mediante l’ablazione transcatetere. I primi studi in cui le procedure venivano realizzate mediante fluoroscopia tradizionale, la documentazione di blocco di conduzione translesionale bidirezionale non era routinariamente eseguita e non tutti i circuiti di rientro venivano sottoposti ad ablazione, riportano un successo in acuto del 70% e una libertà da recidiva a 3 anni del 40%. I lavori più recenti riportano un successo in acuto del 94% ed un tasso di recidiva a 13 mesi del 6%. Questi ottimi risultati sono stati ottenuti con l’utilizzo delle moderne tecniche di mappaggio elettroanatomico e di cateteri muniti di sistemi di irrigazione per il raffreddamento della punta, inoltre la dimostrazione della presenza di blocco di conduzione translesionale bidirezionale, l’ablazione di tutti i circuiti indotti mediante stimolazione atriale programmata, nonché delle sedi potenziali di rientro identificate alla mappa di voltaggio sono stati considerati requisiti indispensabili per la definizione del successo della procedura. OBIETTIVI: riportare il tasso di efficia, le complicanze, ed il tasso di recidiva delle procedure di ablazione transcatetere eseguite con le moderne tecnologie e con una rigorosa strategia di programmazione degli obiettivi della procedura. Risultati: Questo studio riporta una buona percentuale di efficacia dell’ablazione transcatetere delle tachicardie atriali in una popolazione varia di pazienti con cardiopatia congenita operata ed in storia naturale: la percentuale di successo completo della procedura in acuto è del 71%, il tasso di recidiva ad un follow-up medio di 13 mesi è pari al 28%. Tuttavia se l’analisi viene limitata esclusivamente alle IART il successo della procedura è pari al 100%, i restanti casi in cui la procedura è stata definita inefficace o parzialmente efficace l’aritmia non eliminata ma cardiovertita elettricamente non è un’aritmia da rientro ma la fibrillazione atriale. Inoltre, sempre limitando l’analisi alle IART, anche il tasso di recidiva a 13 mesi si abbassa dal 28% al 3%. In un solo paziente è stato possibile documentare un episodio asintomatico e non sostenuto di IART al follow-up: in questo caso l’aspetto ECG era diverso dalla tachicardia clinica che aveva motivato la prima procedura. Sebbene la diversa morfologia dell’attivazione atriale all’ECG non escluda che si tratti di una recidiva, data la possibilità di un diverso exit point del medesimo circuito o di un diverso senso di rotazione dello stesso, è tuttavia più probabile l’emergenza di un nuovo circuito di macrorientro. CONCLUSIONI: L'ablazione trancatetere, pur non potendo essere considerata una procedura curativa, in quanto non in grado di modificare il substrato atriale che predispone all’insorgenza e mantenimento della fibrillazione atriale (ossia la fibrosi, l’ipertrofia, e la dilatazione atriale conseguenti alla patologia e condizione anatomica di base)è in grado di assicurare a tutti i pazienti un sostanziale beneficio clinico. È sempre stato possibile sospendere l’antiaritmico, tranne 2 casi, ed anche nei pazienti in cui è stata documentata una recidiva al follow-up la qualità di vita ed i sintomi sono decisamente migliorati ed è stato ottenuto un buon controllo della tachiaritmia con una bassa dose di beta-bloccante. Inoltre tutti i pazienti che avevano sviluppato disfunzione ventricolare secondaria alla tachiaritmia hanno presentato un miglioramento della funzione sistolica fino alla normalizzazione o al ritorno a valori precedenti la documentazione dell’aritmia. Alla base dei buoni risultati sia in acuto che al follow-up c’è una meticolosa programmazione della procedura e una rigorosa definizione degli endpoint. La dimostrazione del blocco di conduzione translesionale bidirezionale, requisito indispensabile per affermare di aver creato una linea continua e transmurale, l’ablazione di tutti i circuiti di rientro inducibili mediante stimolazione atriale programmata e sostenuti, e l’ablazione di alcune sedi critiche, in quanto corridoi protetti coinvolti nelle IART di più comune osservazione clinica, pur in assenza di una effettiva inducibilità periprocedurale, sono obiettivi necessari per una procedura efficace in acuto e a distanza. Anche la disponibilità di moderne tecnologie come i sistemi di irrigazione dei cateteri ablatori e le metodiche di mappaggio elettroanantomico sono requisiti tecnici molto importanti per il successo della procedura.

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Introduzione. Recenti studi hanno dimostrato che il Rituximab (RTX) è un’alternativa sicura ed efficace alla ciclofosfamide nell’indurre la remissione in pazienti con severa vasculite ANCA-associata (AAV) di nuova diagnosi o recidiva. Scopo dello studio era valutare l’efficacia e la sicurezza del RTX nei nostri pazienti con AAV. Metodi. Studio retrospettivo delle caratteristiche cliniche, dei risultati e della tolleranza al RTX dei pazienti con AAV trattati presso il nostro centro da Gennaio 2006 a Dicembre 2011. Inizialmente veniva utilizzato lo schema convenzionale delle 4 somministrazioni settimanali da 375 mg/m2. Dal 2011 sulla base dell’esperienza maturata e dei nuovi dati della letteratura si decideva di non adottare uno schema fisso per le recidive, ma di somministrare una o due dosi secondo la severità della recidiva ed il rischio infettivo. Risultati. Venivano trattati 51 pazienti con AAV, 15/51 (29%) di nuova diagnosi e 36/51 (71%) ad una recidiva. La maggior parte dei pazienti con nuova diagnosi presentavano una micropoliangioite con severo interessamento renale, 5/15 (33%) erano in dialisi dall’esordio. 32/36 (89%) pazienti trattati ad una recidiva presentavano una recidiva granulomatosa di Granulomatosi di Wegener (WG). Tutti ottenevano una remissione, più rapidamente per le manifestazioni vasculitiche. 2/5 pazienti in dialisi dall’esordio recuperavano la funzione renale. Si osservavano 11 recidive in 9 pazienti con GW mediamente dopo 23.1 mesi, tutti ottenevano nuovamente la remissione. Ad un follow-up medio di 20.1 mesi si registravano 4 decessi, 3 (3/15, 20%) nel gruppo di pazienti con nuova diagnosi, uno (1/36, 3%) nel gruppo trattato ad una recidiva. Quattro pazienti sospendevano il RTX per infezioni. Conclusioni. Nella nostra casistica il RTX si è dimostrato efficace e sicuro nell’indurre la remissione in pazienti con severa AAV, sia all’esordio che alla recidiva. I pazienti con WG presentano maggior rischio di recidiva e dovrebbero pertanto essere mantenuti in terapia immunosoppressiva dopo RTX.

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La chirurgia con ultrasuoni focalizzati guidati da MRI (MR-g-FUS) è un trattamento di minima invasività, guidato dal più sofisticato strumento di imaging a disposizione, che utilizza a scopo diagnostico e terapeutico forme di energia non ionizzante. Le sue caratteristiche portano a pensare un suo possibile e promettente utilizzo in numerose aree della patologia umana, in particolare scheletrica. L'osteoma osteoide affligge frequentemente pazienti di giovane età, è una patologia benigna, con origine ed evoluzione non chiare, e trova nella termoablazione con radiofrequenza continua sotto guida CT (CT-g-RFA) il suo trattamento di elezione. Questo lavoro ha valutato l’efficacia, gli effetti e la sicurezza del trattamento dell’osteoma osteoide con MR-g-FUS. Sono stati presi in considerazione pazienti arruolati per MR-g-FUS e, come gruppo di controllo, pazienti sottoposti a CT-g-RFA, che hanno raggiunto un follow-up minimo di 18 mesi (rispettivamente 6 e 24 pazienti). Due pazienti erano stati esclusi dal trattamento MR-g-FUS per claustrofobia (2/8). Tutti i trattamenti sono stati portati a termine con successo tecnico e clinico. Non sono state registrate complicanze o eventi avversi correlati all’anestesia o alle procedure di trattamento, e tutti i pazienti sono stati dimessi regolarmente dopo 12-24 ore. La durata media dei trattamenti di MR-g-FUS è stata di 40±21 min. Da valori di score VAS pre-trattamento oscillanti tra 6 e 10 (su scala 0-10), i trattamenti hanno condotto tutti i pazienti a VAS 0 (senza integrazioni farmacologiche). Nessun paziente ha manifestato segni di persistenza di malattia o di recidiva al follow-up. Nonostante la neurolisi e la risoluzione dei sintomi, la perfusione del nidus è stata ritrovata ancora presente in oltre il 70% dei casi sottoposti a MR-g-FUS (4/6 pazienti). I risultati derivati da un'analisi estesa a pazienti più recentemente arruolati confermano questi dati. Il trattamento con MR-g-FUS sembra essere efficace e sicuro nel risolvere la sintomatologia dell'osteoma osteoide.

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Obbiettivo. Analizzare la funzionalità polmonare e diaframmatica dopo interventi di plicatura del diaframma con rete di rinforzo peri-costale eseguiti per relaxatio e riparazione di ernia transdiaframmatica cronica mediante riduzione e sutura diretta. Metodi. Dal 1996 al 2010, 10 pazienti con relaxatio unilaterale del diaframma e 6 pazienti con ernia transdiaframmatica cronica misconosciuta sono stati sottoposti a chirurgia elettiva. Gli accertamenti preoperatori e al follow-up di 12 mesi includevano prove di funzionalità respiratoria, misura della pressione massimale inspiratoria alla bocca in clino e ortostatismo, emogasanlisi, TC del torace e dispnea score. Risultati. I pazienti dei due gruppi non differivano in termini di funzionalità respiratoria preoperatoria nè di complicanze postoperatorie; al follow-up a 12 mesi il gruppo Eventrazione mostrava un significativo aumento del FEV1% (+18,2 – p<0.001), FVC% (+12,8 – p<0.001), DLCO% (+6,84 – p=0,04) e pO2 (+9,8 mmHg – p<0.001). Al contrario nrl gruppo Ernia solo il miglioramento della pO2 era significativo (+8.3 – p=0.04). Sebbene la massima pressione inspiratoria (PImax) fosse aumentata in entrambi i gruppi al follow-up, i pazienti operati per ernia mostravano un miglioramento limitato con persistente caduta significativa della PImax dall’ortostatismo al clinostatismo (p<0.001). Il Transitional dyspnoea score è stato concordante con tali miglioramenti pur senza differenze significative tra i due gruppi. La TC del torace ha evidenziato una sopraelevazione dell’emidiaframma suturato, senza recidiva di ernia, mentre i pazienti sottoposti a plicatura hanno mantenuto l’ipercorrezione. Conclusioni. L’utilizzo di un rinforzo protesico è sicuro e sembra assicurare risultati funzionali migliori a distanza in termini di flussi respiratori e di movimento paradosso del diaframma (valutato mediante PImax). Lacerazioni estese del diaframma coinvolgenti le branche principali di suddivisione del nervo frenico si associano verosimilmente a una relaxatio che può quindi ridurre il guadagno funzionale a lungo termine se non adeguatamente trattata mediante l’utilizzo di un rinforzo protesico.

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Obiettivi: nonostante i miglioramenti nel trattamento, circa il 30% dei pazienti pediatrici affetti da Linfoma di Hodgkin (LH) in stadio avanzato recidiva o muore per progressione di malattia e i correnti metodi predittivi biologico-clinici non consentono di individuare tali pazienti. L’obiettivo dello studio è stato quello di definire un profilo molecolare di rischio che correli con l’outcome in questi pazienti. Materiali e metodi: studio retrospettico condotto su pazienti pediatrici affetti da LH omogeneamente trattati dal 2004 in poi. Su tali pazienti è stato intrapreso uno studio di validazione di marcatori molecolari già identificati in studi esplorativi precedenti. 27 geni sono stati analizzati in RT PCR su campioni di tessuto istologico prelevato alla diagnosi fissato in formalina e processato in paraffina relativi a una coorte di 37 pazienti, 12 ad outcome sfavorevole e 25 ad outcome favorevole. Risultati: dall’analisi univariata è emerso che solo l’espressione di CASP3 e CYCS, appartenenti al pathway apoptotico, è in grado di influenzare l’EFS in modo significativo nella nostra coorte di pazienti. Lo studio delle possibili combinazioni di questi geni ha mostrato l’esistenza di 3 gruppi di rischio che correlano con l’EFS: alto rischio (down regolazione di entrambi i geni), rischio intermedio (down regolazione di uno solo dei 2 geni), basso rischio (up regolazione di entrambi i geni). Dall’analisi multivariata è emerso che CASP3 è l’unica variabile che mantiene la sua indipendenza nell’influenzare la prognosi con un rischio di eventi di oltre il doppio di chi ha un’espressione bassa di questo gene. Conclusioni: i risultati ottenuti sulla nostra coorte di pazienti pediatrici affetti da LH confermano l’impatto sulla prognosi di due marcatori molecolari CASP3 e CYCS coinvolti nel patwhay apoptotico. La valutazione del profilo di espressione di tali geni, potrebbe pertanto essere utilizzata in corso di stadiazione, come criterio di predittività.

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Obiettivi: Valutare la prevalenza dei diversi genotipi di HPV in pazienti con diagnosi di CIN2/3 nella Regione Emilia-Romagna, la persistenza genotipo-specifica di HPV e l’espressione degli oncogeni virali E6/E7 nel follow-up post-trattamento come fattori di rischio di recidiva/persistenza o progressione di malattia; verificare l’applicabilità di nuovi test diagnostici biomolecolari nello screening del cervicocarcinoma. Metodi: Sono state incluse pazienti con citologia di screening anormale, sottoposte a trattamento escissionale (T0) per diagnosi di CIN2/3 su biopsia mirata. Al T0 e durante il follow-up a 6, 12, 18 e 24 mesi, oltre al Pap test e alla colposcopia, sono state effettuate la ricerca e la genotipizzazione dell'HPV DNA di 28 genotipi. In caso di positività al DNA dei 5 genotipi 16, 18, 31, 33 e/o 45, si è proceduto alla ricerca dell'HPV mRNA di E6/E7. Risultati preliminari: Il 95.8% delle 168 pazienti selezionate è risultato HPV DNA positivo al T0. Nel 60.9% dei casi le infezioni erano singole (prevalentemente da HPV 16 e 31), nel 39.1% erano multiple. L'HPV 16 è stato il genotipo maggiormente rilevato (57%). Il 94.3% (117/124) delle pazienti positive per i 5 genotipi di HPV DNA sono risultate mRNA positive. Abbiamo avuto un drop-out di 38/168 pazienti. A 18 mesi (95% delle pazienti) la persistenza dell'HPV DNA di qualsiasi genotipo era del 46%, quella dell'HPV DNA dei 5 genotipi era del 39%, con espressione di mRNA nel 21%. Abbiamo avuto recidiva di malattia (CIN2+) nel 10.8% (14/130) a 18 mesi. Il pap test era negativo in 4/14 casi, l'HPV DNA test era positivo in tutti i casi, l'mRNA test in 11/12 casi. Conclusioni: L'HR-HPV DNA test è più sensibile della citologia, l'mRNA test è più specifico nell'individuare una recidiva. I dati definitivi saranno disponibili al termine del follow-up programmato.

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L'outcome dei pazienti sottoposti a trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche è fortemente influenzato da graft versus leukemia (GvL) e graft versus host disease (GvHD) che sono mediate, almeno in parte, dagli antigeni minori di istocompatibilità (mHAgs). In letteratura sono stati identificati 26 mHAgs che sono stati correlati a GvHD/GvL con risultati incompleti e in alcuni casi contrastanti; inoltre manca una metodica che sia in grado di genotipizzare contemporaneamente un pannello così ampio. Il lavoro è stato finalizzato alla preparazione di un protocollo di laboratorio che permetta di studiare in modo efficace i 26 mHAgs identificati, per poi correlarli con GvHD/GvL all’interno di uno specifico gruppo di trapiantati. Utilizzando la metodica IPlex Gold Mass Array Sequenom e tecniche di biologia molecolare convenzionale sono stati genotipizzati 26 antigeni minori di istocompatibilità per 46 coppie full-matched. Tutti i pazienti inclusi nel progetto di studio erano stati sottoposti a trapianto allogenico di cellule staminali emopoietiche da donatore familiare o volontario full-compatibile per leucemia mieloide cronica (n=46) o leucemia acuta linfoblastica Philadelphia positiva (LAL-Ph+, n=24). Il progetto ha confermato l'efficienza (98.6%) e la fattibilità delle metodiche proposte. Dal lavoro è inoltre emerso che, le differenze tra donatore e ricevente a libello mHAgs ACC-1, ACC-4, ACC-5, LB-MTHFD1-1Q, UGT2B17, DPH1, LRH1 potrebbero essere fattori predittivi di GvHD (p<0.05). La seconda evidenza è legata a un trend secondo cui il mismatch per LB-ADIR1 protegge dalla recidiva di malattia, in particolare nei confronti della LAL-Ph+ che è scarsamente responsiva all'allo-immunoterapia. Questo lavoro pilota, la cui casistica deve quindi essere ampliata, ha dimostrato l’efficacia della genotipizzazione con IPlex Gold Sequenom e l’elevato potenziale degli mHAgs sia come fattori predittivi di GvHD che come driver di GvL.

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La chemioembolizzazione (TACE) è uno dei trattamenti locoregionali più largamente utilizzati nel trattamento dell’epatocarcinoma (HCC). A tutt’oggi però rimangono irrisolte alcune importanti controversie sul suo impiego. Nella presente tesi sono stati analizzati alcuni dei principali oggetti di dibattito quali (1) indicazione al trattamento, (2) trattamenti multipli e schema di ritrattamento e (3) trattamento dei pazienti candidabili a trapianto di fegato. A tal fine sono stati riportati tre studi che hanno analizzato gli argomenti sopradescritti. La TACE viene comunemente eseguita nei pazienti al di fuori delle raccomandazioni delle linee guida tra cui i pazienti con nodulo singolo, i pazienti con trombosi portale e con performance status (PS) compromesso. Dallo studio 1 è emerso che la TACE può essere considerata una valida opzione terapeutica nei pazienti con HCC singolo non candidabili a trattamenti curativi, che la trombosi portale non neoplastica ed una lieve compromissione del performance status (PS-1) verosimilmente legata alla cirrosi non hanno impatto sulla sopravvivenza post-trattamento. Multipli trattamenti di chemioembolizzazione vengono frequentemente eseguiti ma non esiste a tutt’oggi un numero ottimale di ritrattamenti TACE. Dallo studio 2 è emerso che il trattamento TACE eseguito “on demand” può essere efficacemente ripetuto nei pazienti che non abbiano scompenso funzionale e non siano candidabili a trattamenti curativi anche se solo una piccola percentuale di pazienti selezionati può essere sottoposto a più cicli di trattamento. La TACE è frequentemente impiegata nei pazienti in lista per trapianto di fegato ma non c’è evidenza dell’efficacia di trattamenti ripetuti in questi pazienti. Dallo studio 3 è emerso che il numero di TACE non è significativamente associato né alla necrosi tumorale, né alla recidiva né alla sopravvivenza post-trapianto. Un tempo d’attesa prima del trapianto ≤6 mesi è invece risultato essere fattore predittivo indipendente di recidiva riflettendo la possibile maggiore aggressività tumorale in questa classe di pazienti.

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Obiettivo: valutare la tossicità ed il controllo di malattia di un trattamento radioterapico ipofrazionato ad alte dosi con tecnica ad intensità modulata (IMRT) guidata dalle immagini (IGRT) in pazienti affetti da carcinoma prostatico a rischio intermedio, alto ed altissimo di recidiva. Materiali e metodi: tutti i pazienti candidati al trattamento sono stati stadiati e sottoposti al posizionamento di tre “markers” fiduciali intraprostatici necessari per l’IGRT. Mediante tecnica SIB – IMRT sono stati erogati alla prostata 67,50 Gy in 25 frazioni (EQD2 = 81 Gy), alle vescichette 56,25 Gy in 25 frazioni (EQD2 = 60,35 Gy) e ai linfonodi pelvici, qualora irradiati, 50 Gy in 25 frazioni. La tossicità gastrointestinale (GI) e genitourinaria (GU) è stata valutata mediante i CTCAE v. 4.03. Per individuare una possibile correlazione tra i potenziali fattori di rischio e la tossicità registrata è stato utilizzato il test esatto di Fisher e la sopravvivenza libera da malattia è stata calcolata mediante il metodo di Kaplan-Meier. Risultati: sono stati arruolati 71 pazienti. Il follow up medio è di 19 mesi (3-35 mesi). Nessun paziente ha dovuto interrompere il trattamento per la tossicità acuta. Il 14% dei pazienti (10 casi) ha presentato una tossicità acuta GI G ≥ 2 e il 15% (11 pazienti) ha riportato una tossicità acuta GU G2. Per quanto riguarda la tossicità tardiva GI e GU G ≥ 2, essa è stata documentata, rispettivamente, nel 14% dei casi (9 pazienti) e nell’11% (7 pazienti). Non è stata riscontrata nessuna tossicità, acuta o cronica, G4. Nessun fattore di rischio correlava con la tossicità. La sopravvivenza libera da malattia a 2 anni è del 94%. Conclusioni: il trattamento radioterapico ipofrazionato ad alte dosi con IMRT-IGRT appare essere sicuro ed efficace. Sono comunque necessari ulteriori studi per confermare questi dati ed i presupposti radiobiologici dell’ipofrazionamento del carcinoma prostatico.

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Lo studio ha posto l'attenzione sul rapporto costo-efficacia tra le metodiche più utilizzate per la rimozione di carcinomi basocellulari: l'asportazione chirurgica e la terapia fotodinamica. Dai dati si evince che la rimozione chirurgica è la metodica più efficace per la minore frequenza di recidive (4.7%) rispetto alla terapia fotodinamica (6%). Questo dato è valido unicamente per i carcinomi superficiali; per i carcinomi nodulari la frequenza di recidiva con la terapia fotodinamica risulta essere più elevata (35%). La chirurgia è una metodica più costosa rispetto alla fotodinamica. La variabile dolore risulta essere minore per la chirurgia rispetto alla fotodinamica. Il risultato estetico invece è migliore per la fotodinamica rispetto alla terapia chirurgica. I costi invece sono più elevati per la terapia chirurgica. Rimane un'ultima considerazione: la terapia fotodinamica richiede talvolta un nuovo intervento a distanza di mesi o anni e pertanto questa scelta comporta costi aggiuntivi.